Notizie dall’Italia e dal mondo 08/01/10

Sommario delle notizie:

  • AIDS: Io, 21, anni, bocconiana, sieropositiva, Non chiudete gli occhi sull’Aids

  • AIDS: Hiv, la bocconiana sieropositiva, «Mia madre non sa, mi curo in segreto»

  • AIDS: Milano: allarme sieropositivi, due contagiati al giorno

  • AIDS: Pericolo trasversale sempre in agguato

  • AIDS: Ragazzi e adulti sottoponetevi al test

  • AIDS: Usa, via libera agli stranieri sieropositivi, cancellata la norma in vigore dall’87

  • DROGA: la svolta di Obama

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  • AIDS: Io, 21, anni, bocconiana, sieropositiva, Non chiudete gli occhi sull’Aids

    5 GEN 2010 – Corriere.it –  Scrivo questa lettera perché mi sento in dovere di farlo. Ho 21 anni e vivo a Milano, studio all’università Bocconi, sono una ragazza solare e appaio come una ragazza «normale». Eppure c’è un però, sono sieropositiva, e l’ho scoperto qualche mese dopo aver compiuto i miei 18 anni. Sono in cura al Sacco da circa 3 anni, è un’ottima struttura con personale competente, i miei genitori non sono a conoscenza della mia situazione. Vorrei, forse utopicamente, che lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni prendessero seriamente questa pandemia. Si dovrebbe parlare molto più spesso di questa malattia, forse non tanto agli studenti, che sono informati per le sessioni di educazione sessuale fatte a scuola, bensì ai genitori, agli adulti, agli over 30.
    Due milanesi al giorno si infettano, e questi non sono ragazzini di 16 anni, ma sono padri di famiglia, che tradiscono le proprie mogli e che le infettano, e che rovinano la vita dei loro familiari. Non credo di essere esagerata nel definire questa malattia una pandemia, io davvero non mi capacito del perché non venga fatta una diffusione a livello nazionale di tali informazioni. Ogni malato come me, viene a costare al servizio sanitario 1.500 euro al mese solo per i medicinali, senza contare le visite mensili ed i vari controlli. Non mi piace l’idea di pesare sugli altri, ma se ci fosse stata una maggiore informazione o una rieducazione sessuale, io probabilmente non avrei fatto sesso non protetto con il mio ragazzo con il quale stavo da 4 anni, se gli uomini smettessero di tradire le proprie mogli e fidanzate, io ora non sarei malata di Hiv, e non sarebbe per me così difficile tante volte trovare una ragione di vita.
    A 21 anni è difficile dire ad un proprio coetaneo che si è malati. Si teme l’ignoranza, l’allontanamento… Insomma ho 21 anni e sono malata, vorrei tanto che la gente acquisisse consapevolezza e che comprendesse che l’Aids non è poi tanto lontano da ognuno di noi. Vorrei che nessuno dovesse passare ciò che passo io tutti i giorni. Vorrei che qualcuno finalmente trovasse una cura, e se non è possibile, vorrei almeno che la gente non mi guardasse male per la mia malattia, perché io non sono una drogata, una dai facili costumi, o una persona sessualmente ambigua, io sono una ragazza normale che è stata per 4 anni con lo stesso ragazzo, che non lo ha mai tradito, al suo contrario.
    Io penso che sia sbagliato ed immorale che la nostra società venga bombardata da messaggi promozionali che seguono esclusivamente la logica del profitto. Penso che nella nostra società, nel 2010, non sia accettabile che informazioni di vitale importanza, quali quelle sull’Hiv, non vengano diffuse allo stesso livello se non a livello superiore di quelli commerciali. Spero che i media riescano a trovare lo spazio per tali informazioni e per la pubblicità a scopo sociale, in quanto il prossimo caso di Hiv potrebbe essere vostro figlio, vostro marito o anche vostra moglie. Ognuno di noi può fare la differenza! Io ci sto provando, ma sono solo una studentessa di 21 anni, forse voi che avete in mano i mezzi di comunicazione e di informazione potete fare molto più di me!

  • AIDS: Hiv, la bocconiana sieropositiva, «Mia madre non sa, mi curo in segreto»

    8 GEN 2010 – Corriere.it – MILANO – «Ho 21 anni e sono sieropositiva». Lo sguardo è fisso su una tazzina di caffè che rigira tra le mani in un bar di via San Marco, nel centro di Milano: piange, ma non vuole stare più zitta lei, coraggiosa studentessa milanese al secondo anno dell’Università Bocconi, una storia d’amore (e di fedeltà) durata quattro anni con un uomo di dieci in più, la scoperta di essere ammalata di Hiv dopo aver fatto il test a 18 anni spinta dal desiderio di donare il sangue. I genitori non immaginano nulla e probabilmente mai sapranno, all’ultimo fidanzato l’ha confessato una settimana dopo il primo bacio: «Lui è rimasto, al contrario di altri che comprensibilmente sono scappati».
    Sofia (il nome è di fantasia per rispetto della privacy) lo scorso 4 gennaio ha scritto al Corriere un’email che ha scosso Milano, una città con 22 mila sieropositivi in cura (sui 60 mila a livello italiano) e due nuovi contagi al giorno da Hiv (la stessa incidenza di New York).
    «Io non sono una drogata, né una dai facili costumi, né una persona sessualmente ambigua; io sono una ragazza normale che è stata per quattro anni con lo stesso ragazzo, che non lo ha mai tradito, al suo contrario (…). Vorrei tanto che la gente acquisisse consapevolezza e che comprendesse che l’Aids non è poi tanto lontano da ognuno di noi. (…) Il prossimo caso di Hiv potrebbe essere vostro figlio, vostro marito o anche vostra moglie. Ognuno può fare la differenza!».
    In poche ore la sua lettera ha scatenato centinaia di risposte al forum del Corriere. Parole di solidarietà, in bocca al lupo, ringraziamenti per il suo coraggio che spinge tutti a riflettere, inviti a mangiare la pizza, esortazioni — anche da chi è costretto a vivere la stessa esperienza— a non rinunciare né ai figli, né alla carriera. La decisione di rompere il muro di silenzio intorno all’Aids, Sofia l’ha presa dopo uno scontro con la sua migliore amica che, conosciuto da poco un giovane, ha avuto rapporti sessuali non protetti: «Ma come, neppure tu che sei al corrente della mia storia usi il preservativo?». La replica della coetanea: «Ma lui non ha la faccia di uno con l’Hiv». Maledetta stupidità!
    E, allora, al diavolo la paura di parlare dell’argomento. In jeans, scarpe da tennis, camicia azzurra e pullover sotto un piumino all’ultima moda, Sofia racconta: «Ogni giorno per me è difficile trovare una ragione di vita. Se ci fosse stata più informazione io, forse, oggi non sarei in questa situazione». Quella mattina del maggio 2007, da poco 18enne, Sofia non se la dimenticherà mai. «Ero andata a ritirare il test dell’Hiv insieme con la mia compagna di banco del liceo— dice —. Lei era vergine, io avevo una storia ormai collaudata: entrambe c’eravamo sottoposte all’esame quasi per gioco dopo che i medici dell’ospedale Sacco erano venuti a scuola per una lezione di prevenzione». Il primo brivido le ha percorso la schiena quando, al contrario della sua amica, per consegnarle la busta con i risultati dell’esame l’hanno chiamata da parte.
    Le ore, i giorni, i mesi che seguono sono scanditi da notti insonni con la faccia sprofondata nel cuscino per soffocare il pianto, le visite al Sacco, le due pastiglie da prendere ogni giorno nascoste nel cassetto del comodino e lo spazzolino da denti che improvvisamente viene custodito con scrupolo, il tira-e-molla per un anno con il fidanzato storico (e traditore) al quale è stata lei a fare scoprire la malattia, la convinzione di non avere più un futuro davanti, gli sfoghi in un e-diary che ha ancora numerosi contatti quotidiani. Poi, quasi inaspettatamente, la voglia di reagire trovata nello sguardo amorevole di una madre ignara di tutto, ma baricentro affettivo della sua vita, nel test d’ammissione alla Bocconi superato con successo, nel desiderio di diventare manager e, persino, nella speranza di sposarsi e avere figli. «La mia paura più grande non è la malattia, ma quella di restare sola— confessa —. Per fortuna il mio attuale fidanzato non è scappato dopo la mia confessione choc fatta già al secondo appuntamento, perché non sopporto l’idea di ingannarlo».
    Con le sue amiche— solo in due sanno la verità — parla di vestiti come fanno tutte le fashion victim, degli esami da dare all’università e dei ragazzi (quelli dei sogni e quelli reali). «Finché sto con loro mi sento bene— ammette —. Ma la sera, soprattutto prima di addormentarmi, spesso vengo ancora assalita dallo sconforto». Per consolarsi Sofia si ripete mentalmente la frase che Will Smith ha detto al figlio Jaden ne La ricerca della felicità di Gabriele Muccino: «Se hai un sogno, tu lo devi proteggere. Se vuoi qualcosa, vai lì e inseguila».

  • AIDS: Milano: allarme sieropositivi, due contagiati al giorno

    6 GEN 2010 – Corriere.it – Nel capoluogo lombardo in cura 22 mila persone. Più colpiti giovani e over 60. Moroni: trend in crescita – MILANO-Ha 21 anni ed è sieropositiva. Come lei, coraggiosa studentessa della Bocconi che ha affidato al Corriere il racconto del suo dolore, a Milano ci sono altre 22 mila persone. Un numero in crescita. Eppure l’Aids è ancora vergogna, tabù, paura. In uno dei passaggi della lettera si leggeva: «Si dovrebbe parlare molto più spesso di questa malattia. Io non sono una drogata, una dai facili costumi. Io sono una ragazza normale». Mauro Moroni, storico primario del Sacco e presidente dell’Anlaids Lombardia: «C’è troppo silenzio intorno al problema». Cento e più le email sull’argomento arrivate a Corriere.it
    DUE NUOVI CONTAGI AL GIORNO – A Milano si contano due nuovi casi di contagio da Hiv al giorno: eppure Giuliano Rizzardini, a capo della 1ª e 2ª divisione di Malattie infettive del Sacco (che cura il 10% dei malati di tutt’Italia), oggi viene chiamato dalle scuole per parlare di prevenzione anti-Aids (solo) due volte l’anno contro le quattro volte al mese di quindici anni fa. È in questi dati — dicono gli esperti — la contraddizione di una città che ha la stessa percentuale di nuove infezioni di New York, ma dove la prevenzione stenta a decollare (come confermano i quasi mille nuovi malati l’anno) e che troppo spesso viene scossa più dalle polemiche sulla distribuzione di preservativi pubblica come dimostrano le 100 e più email arrivate al forum del Corriere.it. Ammette Mauro Moroni, storico primario del Sacco e presidente dell’Anlaids Lombardia: « Il trend dei nuovi contagi ritorna a essere in crescita, ma c’è troppo silenzio intorno al problema, in città come nel resto d’Italia. Nonostante i numeri l’Hiv non rientra più nell’agenda delle emergenze».
    UNO SU DUE È ETEROSESSUALE – A Milano c’è un terzo dei malati di tutt’Italia. Un nuovo contagiato su due è eterosessuale. Non solo: «Almeno il 25% dei sieropositivi può riconoscersi nell’esperienza della giovane bocconiana — spiega Giuliano Rizzardini —. Tutti pazienti senza comportamenti sessuali promiscui». I più a rischio sono i giovani tra i 24 e i 29 anni e gli uomini sopra i 60 alla riscoperta del sesso con il Viagra. Ma l’Hiv è definita una malattia democratica che non colpisce solo uomini (e donne) dalla vita disordinata: «Può bastonare chiunque senza fare distinzioni — scrivono i lettori nel forum —. Il che non vuol dire che gli altri, e cioè gli omosessuali, gli infedeli e i drogati, se lo meritino».
    Un invito alla clemenza (che è diversa dalla pietà), ma soprattutto alla prevenzione con l’uso del preservativo e l’abitudine a fare il test. È l’esortazione che arriva dalle email ricevute dal Corriere e dai medici: «La percezione del rischio è crollata— ribadisce Moroni —. E non c’è nulla di più pericoloso». Per la giovane bocconiana, invece, piovono soprattutto i ringraziamenti per un atto di denuncia civile. E c’è chi l’invita a mangiare la pizza venerdì sera, chi le consiglia di confidarsi con i genitori ignari di tutto, chi— sulla scorta della propria esperienza personale — la spinge ad avere una vita serena senza precludersi né i figli né la carriera, chi la esorta a ritrovare il sorriso, chi si limita semplicemente ad augurarle buona fortuna.

  • AIDS: Pericolo trasversale sempre in agguato

    6 GEN 2010 – Corriere.it – I malati di Aids continuano a essere degli emarginati sociali, tipo drogati da eroina oppure persone che per un verso o per l’altro «se lo sono andati a cercare»
    Grazie, sfortunatissima ragazza, per avere scritto questa drammatica lettera. Le cose che scrivi le sappiamo ovviamente, noi, voi, tutti quanti; o meglio le sapevamo e ce ne siamo dimenticati, per cui nella nostra immaginazione i sieropositivi, i malati di Aids continuano a essere degli emarginati sociali, tipo drogati da eroina oppure persone che per un verso o per l’altro «se lo sono andati a cercare».
    Nessuno o quasi nessuno mai pensa che chi fa una vita normale, ordinata, non promiscua sessualmente rischia facilissimamente di infettarsi.
    Figurarsi poi una ragazza come te, milanese, bocconiana, informata, preparata e autonoma: così autonoma che da tre anni tieni segreta la tua malattia ai genitori e provvedi in perfetta, a volte, immagino, angosciante solitudine a curarti.
    Per farsi un’idea di come, invece, è trasversale questa malattia, di come è perfettamente democratica, basterebbe andare, per esempio, in un centro come quello dell’ospedale Sacco dove sono seguiti i sieropositivi: vi si incontrano tutte le categorie sociali, anche le più colte o privilegiate. E’ importantissimo che tu abbia scritto perché la tua testimonianza sul giornale vale più di cento articoli: ai giornalisti, infatti, a volte a ragione, si tende a dare poca fiducia, si pensa che inventino, che esagerino. Nei mesi passati sono, infatti, usciti vari articoli che lanciavano l’allarme sulla ripresa violenta del contagio, dopo anni in cui sembrava in discesa, tuttavia non ne è nata alcuna iniziativa, né alcuna nuova campagna tesa a informare o, anzi a ri-informare la popolazione.
    Così è successo che la diffusione dell’Aids, come bene scrivi tu, è tornata a crescere. Due milanesi infettati al giorno, è questo il dato pazzesco che dovrebbe mettere in allarme non solo l’organizzazione sanitaria ma anche gli amministratori e i politici. C’è, infine, quella tua invocazione affinché cambi la mentalità comune secondo la quale l’Aids è una malattia degradante che riguarda un’umanità di seconda classe, a certi gruppi invisibili che stanno da qualche parte nel buio, e non noi che siamo qui nella luce e nella certezza che un guaio del genere non ci può capitare. Me lo auguro anch’io, dal profondo, per riguardo dei malati e perché solo comprendendo quanto il contagio sia trasversale, si tornerà forse a prenderlo drammaticamente sul serio.

  • AIDS: Ragazzi e adulti sottoponetevi al test

    6 GEN 2010 Corriere.it – un giorno o l’altro i pregiudizi cadranno, il test lo si farà a tutti in tutte le occasioni possibili, e i sieropositivi li si curerà prima che si ammalino.
    «Spero che i media riescano a trovare lo spazio per informare, il prossimo caso di Hiv potrebbe essere vostro figlio, vostro marito o anche vostra moglie». Verissimo. Si tratta di ricominciare da dove eravamo rimasti (le campagne di informazione ferme a 15 anni fa) e di farlo senza pregiudizi. Se una persona ha l’Aids è quasi sempre «perché se l’è cercata». Non è vero, molti che oggi hanno l’Aids la malattia non se la sono cercata, tutt’altro. Donne, giovani e meno giovani per esempio, che arrivano in ospedale già gravi. Non sapevano di essere sieropositivi, il partner, anche lui non sapeva.
    Ma quelle che sono state infettate dal marito la gente «le guarda male» come chi contrae il virus per comportamenti a rischio. Così il momento giusto per fare il test non lo si trova mai. E quando ci si decide a farlo, se si scopre di essere sieropositivi si fa finta di niente. Si continua la vita di prima, si infettano altri e in Ospedale si arriva tardi, quando si sta male. È un peccato perché per l’Aids, come per la maggior parte delle malattie, prima si inizia la terapia, maggiori possono essere i risultati. Aspettare vuole dire più complicanze, più farmaci, più costi. E poi le cure sono meno efficaci.
    C’è un modo per fermare l’epidemia? Per un po’ si è sperato nel vaccino, ci hanno provato in tanti per anni ma finora non è stato possibile metterne a punto uno efficace. Un po’ perché l’Hiv cambia continuamente e poi perché il virus vive proprio nelle cellule responsabili della risposta immune e le uccide e questo rende tutto più difficile. Visto che il vaccino non c’è — e non ci sarà per un bel po’ di anni — c’è altro che si possa fare? Sì, fare il test a tutti giovani e adulti, fino ai 65 anni, in tutte le occasioni possibili. E curare i sieropositivi prima che si ammalino. «Test per l’Hiv a tutti quelli che vogliono e poi farmaci antivirali come strategia per evitare la trasmissione del virus». È il titolo di un lavoro del Lancet, pensato per fermare l’Aids in Sudafrica. Se tutti quelli che sono sieropositivi prendessero i farmaci antiretrovirali, sarebbe molto più difficile diffondere il virus col sesso senza protezione.
    Ma se è così semplice perché non farlo davvero? Si tratta di chiedere a qualcuno di curarsi per il bene di tanti altri. Qualcuno dirà che questo limita la libertà dell’individuo. Ci sarà un dibattito. Tanti saranno contrari. Ma un giorno o l’altro i pregiudizi cadranno, il test lo si farà a tutti in tutte le occasioni possibili, e i sieropositivi li si curerà prima che si ammalino. Se dovesse succedere tra 20 o 30 anni di virus dell’Aids nel mondo non ci sarà più traccia. Proprio come è stato col vaiolo.

  • AIDS: Usa, via libera agli stranieri sieropositivi, cancellata la norma in vigore dall’87

    3 GEN 2010 – Repubblica.it – WASHINGTON- Le persone sieropositive potranno entrare, viaggiare, lavorare e risiedere negli Usa, cosa proibita fino a oggi. Da domani, infatti, negli Stati Uniti diventa esecutiva la legge, depositata lo scorso 2 novembre, che cancella il divieto di ingresso e permanenza negli Stati Uniti per le persone affette da Hiv/Aids, in vigore dal 1987.
    Il divieto prevedeva che un cittadino straniero malato di Aids, per entrare negli Usa, avrebbe dovuto richiedere un visto, allegando una lettera del proprio medico, una scheda sulla motivazione del viaggio, un’assicurazione sanitaria e un contratto di lavoro nel Paese di origine. Ciò, secondo un’inchiesta pubblicata nel 2007 dal quotidiano britannico Times, faceva sì che i sieropositivi entrassero negli Stati Uniti illegalmente, con il rischio di essere accusati di immigrazione clandestina.
    E’ stato il presidente americano Barack Obama a rimuovere lo scorso ottobre, con il Ryan White Hiv/Aids Treatment Extension Act, il provvedimento che dal 1987 anni prevedeva un visto speciale difficilissimo da ottenere. La norma, aveva spiegato il capo della Casa Bianca, era stata decisa in un momento in cui i visitatori negli Stati Uniti venivano visti come una “minaccia”. “Se vogliamo essere leader mondiali nella lotta all’Hiv/Aids, abbiamo bisogno di agire così senza marchiare le persone affette dal virus” aveva detto Obama dando l’annuncio di voler tenere nel 2012 la Conferenza mondiale sull’Aids proprio negli Stati Uniti.
    Plaudono le associazioni, anche in Italia. “E’ finalmente finita un’ingiusta e pericolosa discriminazione, che per oltre vent’anni ha provocato divisioni nelle famiglie, perdita di opportunitá di lavoro, difficoltà nel seguire le terapie, per tante persone sieropositive”, ha detto Alessandra Cerioli, presidente della Lila. La Lega italiana per la lotta contro l’Aids ricorda che ancora in tanti paesi vigono simili restrizioni su ingresso o permanenza, “e ventisette prevedono la deportazione. Per rimanere nella regione europea sono ventuno i paesi che considerano ancora le persone sieropositive una minaccia per la salute pubblica e hanno norme discriminatorie nei loro confronti”.

    OAS_RICH(‘Middle’); In previsione della prossima Conferenza sull’Aids, che si terrà a Vienna quest’anno, la Lila insieme alle altre associazioni europee “si sta battendo – ha rilevato Cerioli – perché un segnale forte dell’impegno nella lotta contro stigma e discriminazione arrivi proprio dall’Europa. Il segnale che ci aspettiamo – ha concluso – è che i Paesi europei e confinanti cancellino queste norme restrittive entro la fine del 2010”.
  • DROGA: la svolta di Obama

    6 GEN 2010 – ilmanifesto.it – Nonostante gli avvoltoi e altri uccelli del malaugurio, per il presidente Obama il 2009 si chiude con successo. Dopo la vittoria epocale per la sanità, ha vinto un’altra battaglia: dopo ventuno anni, il Senato ha tolto definitivamente il divieto al finanziamento federale dello scambio siringhe per i consumatori di droga per via iniettiva; qualche giorno fa, lo stesso Obama, annunciando la fine del divieto di ingresso nel paese alle persone con Aids – anch’esso in vigore da venti anni – ha detto che il suo paese vuole diventare un leader mondiale nella lotta all’Hiv.
    Per avere un’idea della portata storica del voto al Senato: vent’anni fa l’infezione Hiv si stava diffondendo in maniera esponenziale tramite gli aghi infetti e già si sapeva che distribuire siringhe sterili era la sola forma efficace di prevenzione. Da qui negli anni ’80 è partita nel Nord Europa la cosiddetta riduzione del danno, per dare priorità alla tutela della vita sulla «lotta alla droga». Negli stessi anni, l’America reaganiana della «war on drugs» imboccava la via opposta e metteva al bando lo scambio siringhe. Le centinaia di migliaia di persone infettate sono da annoverare fra le vittime della «guerra alla droga»: vittime di tutto il mondo, non solo americane, perché gli Stati Uniti hanno usato la loro influenza per imporre la linea «dura» a livello mondiale, con pesanti pressioni anche sulle Nazioni Unite. Perfino l’ultimo documento Onu di indirizzo delle politiche globali, approvato a Vienna agli inizi del 2009, non reca traccia del termine «riduzione del danno», grazie all’opposizione determinante dei rappresentanti americani. È stata l’ultima imboscata perpetrata da un manipolo di burocrati «giapponesi», nelle more del passaggio di consegne all’amministrazione Obama.
    Due mesi dopo, lo zar fresco di nomina, Gill Kerlikowske, in un’intervista allo Wall Street Journal, decretava la fine della «war on drugs»: «Hai voglia a spiegare alla gente che la guerra alla droga è una guerra al prodotto e non alle persone – ragionava lo zar – le persone la vivono come una guerra contro di loro. Ma in questo paese non facciamo guerra alle persone». C’è dello «understatement» nelle sue parole: la guerra alla droga è «vissuta» come una guerra alle persone perché è una guerra alle persone. Come ben sanno quei contadini sudamericani costretti ad abbandonare i campi bombardati dai pesticidi, o le centinaia di migliaia di consumatori, di marijuana soprattutto, che ogni anno entrano nelle prigioni Usa per il solo fatto di usare droga.
    Eppure la svolta simbolica c’è stata e il cambiamento è venuto di conseguenza, a tutti i livelli. Dopo trentacinque anni, lo stato di New York ha eliminato le famigerate «Rockfeller drug laws» che imponevano lunghe carcerazioni anche per i reati minori di droga. Subito dopo si è avverata un’altra promessa elettorale di Obama. Il dipartimento di Giustizia ha posto fine ai raid della polizia federale contro i medici e i pazienti che usano la canapa ad uso medico negli stati dove questo è consentito. Infine, il regalo di fine d’anno col via libera alla prevenzione dell’Aids. Adesso, l’Amministrazione sta lavorando per superare la disparità di trattamento penale fra i reati per il crack e quelli per la cocaina. Le norme più dure per il crack non hanno alcuna giustificazione se non quella di colpire la minoranza afroamericana, dove il crack è più diffuso. Le droghe devono diventare un problema di salute pubblica, non solo di giustizia penale: questa la sintesi del new deal americano per le droghe. Una linea di (prudente) riforma che la maggioranza dei paesi europei ha imboccato da tempo. Così come l’assistenza sanitaria per tutti, introdotta con tanta fatica da Obama, è stata in Europa la prima pietra del welfare, molto tempo fa. Per l’America liberista e puritana, ambedue le riforme sono oggi un approdo storico. L’influsso sul resto del mondo comincia a farsi sentire. In agosto, il vicino Messico ha depenalizzato l’uso personale di droga e lo stesso hanno decretato per la marijuana i giudici della Corte Suprema in Argentina. Per la politica delle droghe, il 2009 di Obama ha gettato i semi della pace.